Giovanni che faceva le stelle

LOADING

Le lunghe corna dei buoi culminavano in punte minacciose che si drizzavano verso il cielo limpido, striato solo da nubi leggere. Sei coppie di bestioni erano pronti in attesa. Poco più su, sulla montagna, le urla degli uomini e lo scricchiolio dei legni facevano quasi paura. Eppure, Giovanni non riusciva a staccare gli occhi dalla lenta e incerta avanzata degli enormi blocchi di pietra bianca. Operai con gli abiti scuri impolverati si tergevano il sudore passando gli avambracci sul viso. Allora il pulviscolo mescolato agli umori del corpo formava sulla pelle strani disegni, come quelli di guerrieri primitivi. In effetti, combattevano la loro lotta contro il tempo infilando legni rotondi sotto il pianale della lizza e spostandosi in fretta prima che la sua avanzata li travolgesse. Altri, operosi come formichine in autunno, legavano le cinghie delle traverse ai paletti conficcati lungo il percorso, così che il carico avanzasse senza deviare. Ed ora eccoli lì i buoi, pronti a continuare il duro lavoro trascinando il pesante carro dalla cava al cantiere o,ancora più in là, alla stazione. Avanzavano a capo chino, con i muscoli del collo tesi nello sforzo di trascinare l’enorme peso. Giovanni fu scosso da un brivido e strinse più forte il fagotto che aveva nella sinistra. Con la destra, come per scaramanzia, accarezzò lo scalpello e il mazzuolo che gli pendevano dalla cinta di cuoio.Il fisico asciutto e gli abiti troppo larghi lo facevano sembrare ancora più giovane dei suoi pochi anni. Eppure, per quan- to avesse solo sfiorato la pubertà, alla scuola non avevano avuto dubbi: pos- sedeva forza e ingegno a sufficienza per andare sul cantiere più importante del momento. Mastro Enrico lo aveva convocato usando il suo solito brusco cipiglio:“Giovanni, ti devo parlare”. Sulle prime aveva temuto che gli toccasse una punizione per chissà cosa e lo stomaco gli si era contorto. Aveva lasciato il blocco di marmo su cui stava scolpendo una foglia d’acanto e aveva seguito il suo maestro senza dire nulla. Quando poi avevano imboccato il corridoio che por- tava all’ufficio del signor direttore, la tensione si era quasi trasformata in panico. Doveva aver combinato qualcosa di grosso per finire là dentro ma, per quanto ci pensasse, non gli riusciva di trovare la colpa di cui si era macchiato. Non aveva paura solo di quello che gli sarebbe toccato di lì a poco, ma anche del momen- to in cui avrebbe dovuto riferire tutto a sua madre, che avrebbe raddoppiato le staffilate del direttore. La Gina era una gran buona donna, ma aveva la mano pesante e, come diceva lei, “con sette figli e senza un marito, mi conviene battere bene subito, per non do- ver faticare due volte”. Quando Mastro Enrico bussò alla porta di legno con il vetro smerigliato, una voce grave rispose dall’interno: “Avanti”. Forse le trombe del Giudizio non avevano un suono molto diverso. Mastro Enrico spinse avanti Giovanni e gli rimase alle spalle. Il ragazzo calpestò timidamente il bel tap- peto di lana soffice e alzò a fatica lo sguardo verso la faccia austera del direttore. “Giovanotto” disse questi, rimanendo seduto sulla sua seggiola di legno dietro alla scrivania ordinatissima,con il calamaio d’argento e il tampone di carta assorbente chiazzato di nero. “Sei pronto per lavorare?” Giovanni una domanda del genere proprio non se l’aspettava. Rimase interdetto per una manciata di secondi prima di aprire la bocca asciugata dalla tensione e balbet- tare: “Sì, signore”. “Bene” e il direttore si strofinò le mani mentre Mastro Enrico non fiatava nemmeno. “Domani allora vai al cantiere vicino alla stazione di Rezzato e dì che ti mando io.” Da dietro Mastro Enrico gli sussur- rò: “Ti pagheranno, eh”. Giovanni stava facendo fatica a passare dalla paura all’entusiasmo e gli sembrava di sentire solo il ron- zio delle proprie orecchie, assordate dall’emozione. Quale fosse il can- tiere lo sapevano tutti. Attorno alle cave non si parlava d’altro che del monumento di Roma e di quanto fosse buono Zanardelli che aveva fatto tanto per far lavorare quelli della sua terra. A Giovanni sembrava già di essere nella storia. Chissà che faccia avrebbe fatto la mamma e chissà che cosa avrebbe detto Esterina. A Giovanni sembrava già di essere nella storia. Chissà che faccia avrebbe fatto la mamma e chissà che cosa avrebbe detto Este- rina. La voce del direttore lo riportò bru- scamente alla realtà: “E vedi di fare bene o torni qui per le bacchettate.” Detto quello, il direttore mise mano alla penna e non li guardò più. Mastro Enrico gli toccò una spalla per farlo muovere e Giovanni capì che l’incontro era finito. Quando lo vide arrivare di corsa dall’aia, la Gina portò una mano sul fianco: “Fai piano, che spaventi le galline!” “Mamma! Da domani lavoro al cantiere!” La Gina addolcì lo sguardo ma non poté commentare perché Este- rina, con le trecce bionde e la vestaglia coi buchi, fece capolino dalla cucina della Piera: “Ma che bravo che sei!” “Tu torna dentro!” la ammonì la Gina, ma prima che la ragazzina tornasse a tagliare cipolle, Giovanni riuscì a schiacciarle l’occhio e scam- biare un cenno d’intesa. Quando tutti dormivano, la raggiunse in silenzio nel fienile. “Che cosa ti ha detto la mamma?” le sussurrò lei, piano perché anche le mucche hanno l’orecchio sottile e se si spaventano iniziano a fare un baccano che sveglia i morti. “A me non ha detto niente, però si vedeva che era felice” le rispose Gio- vanni con lo stesso tono, sedendosi vicino a lei per annusare il profumo di bucato della sua camicia da notte candida, che sembrava rilanciare la luce della luna. Esterina sorrise: “E ha ricominciato a raccontare di tuo zio?” Giovanni annuì sorridendo nel naso: “Sì, di lui e della guerra d’Africa!” Poi si fece serio: “Credo che sia per lo zio che è tanto contenta che io lavori per l’Altare della Patria.” “Mi sembra giusto” convenne Esterina, adagiandosi sul fieno. E rimasero lì fino a che la luna fu a metà del suo corso in cielo, raccontandosi il sogno di quando sarebbero stati grandi e ancora innamorati. Appena i blocchi di marmo furono smon- tati dalla lizza, uno venne assegnato a Giovanni e a Carlo, un ragazzo poco più vecchio di lui, ma molto più robusto. Carlo, con il fare sicuro di chi aveva già dimestichezza con il posto, gli chiese: “Hai tutto?” Giovanni annuì: sciolse il fagotto e appog- giò le due fette di pane e la mela sul faz- zoletto, in un angolo all’ombra. Prese il telo più grande e lo legò davanti alla bocca per non respirare la polvere, poi mostrò a Carlo il mazzuolo e lo scalpello medio. Carlo gli si fece vicino e lo prese per i polsi in maniera da vedere l’interno delle sue mani. Quando constatò che i calli erano abbastanza spessi e larghi fece un grugnito di approvazione e con un cenno del capo lo incoraggiò a cominciare il lavoro. Prima che il sole fosse alto nel cielo, i blocchi più grossi erano già stati ridotti in parti. Dopo il pranzo Giovanni sentiva le braccia pesanti e verso le quattro le vesciche erano già gonfie e bruciavano per il sudore che gli scorreva tra le dita. Si vergognò di se stesso quando si sentì così stanco da aver voglia di piangere. Si raddrizzò e provò a rilassare le spalle a caccia di un po’ di sollievo, ma Carlo lo riprese all’istante: “Ehi, mica c’è tempo da perdere!” Poi vide lo sguardo offuscato di Giovanni e si ammorbidì: “Lascia stare lì e vai a rifinire quella modanatura là, che deve partire domani mat- tina.” Un po’ sollevato alla prospettiva di cambiare postura, Giovanni s’in- formò: “Deve essere fatta di fino?” “Come il modello, meglio che puoi. Poi l’ultimo colpo lo danno i nostri che stanno a Roma.” Giovanni non ebbe bisogno di altro. Avvolse il fazzoletto attorno alla mano sinistra per alleviare il dolore delle piaghe che si stavano aprendo e attaccò il nuovo incarico. Il sole stava calando, ma la modanatura richiedeva ancora tempo. E poi, tra un colpo e l’altro, Giovanni aveva cominciato a ripassare a mente la storia dello zio Bortolo che era morto nella guerra d’Africa e che prima aveva fatto il cavatore, come pure suo padre. E adesso lui, Giovanni, era lì a fare lo scalpellino e loro di sicuro erano orgogliosi della sua fatica. Era completamente sprofondato nei suoi pensieri quando Carlo gli si affiancò: “E’ passata l’ora di cena. Adesso puoi andare.” Senza nemmeno alzare il capo, Giovanni rispose: “Vorrei finire qui. Posso restare?” Carlo fece spallucce: “Per me puoi anche dormirci qui, ma tra un’ora non si vedrà più niente” e lo lasciò lì senza nemmeno salutarlo. Giovanni decise che avrebbe concluso prima del buio fitto, perché a casa la mamma forse si stava preoccupando ed Esterina ci sarebbe rimasta male se non fosse andato a chiacchierare con lei. E fu allora, su quel pensiero, che Giovanni scalpellò più forte, buttando nella destra che batteva il mazzuolo tutta la forza che gli restava e tenendo fermo nella sinistra lo scalpello, stretto come se fossero tutti i pensieri che lo avevano sostenuto in quella prima sfiancante giornata. Insieme all’ultima scheggia di marmo si staccò una scintilla e Giovanni la guardò salire in cielo e finire nel blu cupo a brillare come una nuova.