Agostino, detto Ago per via che era lungo lungo e secco secco, quella mattina del 4 novembre 1921 scese le scale di casa, rincorso dalla voce della madre. “Il latte. Un po’ di pane e latte non lo vuoi?” Rispose scuotendo la testa, senza voce, che il fiato lo doveva tenere da conto per giocare a pallone, giù nello spiazzo. Uscì al sole e quasi si scontrò con Carletto, l’amico suo del pianerottolo, che se ne tornava su, la palla di stracci tra le mani. “Mbé, che t’ha preso?” lo apostrofò Ago. “A me niente”, fece quello, indicando la piazza. Ago seguì il dito e vide. “ ’mmazza, e che è? E’ uscito fòri fiume?” commentò stupito. Sembrava davvero che il Tevere, quella mattina,avesse invaso la città, trasformando il liquido dell’acqua sua in un fiume, sì, ma di gente. “Oggi fanno un funerale”, borbottò Carletto. “A uno che è morto in guerra”. C’era tanta di quella gente intorno, che più che un fiume sembrava un mare. Pieno di soldati. Pieno di bandiere. Le bandiere sventolavano al sole e facevano una certa bellezza, come un’emozione che ti prendeva prima gli occhi e dopo più giù, al petto. Quasi un crampo di fame. Ago si mise a osservare i soldati. Camminavano e non pareva che toccassero coi piedi sui sanpietrini della piazza. C’era un silenzio che lo potevi tagliare a fette come il pane, tanto era denso. E strano. Le sciabole e le baionette. C’erano pure quelle. E i cavalli, fermi immobili pure loro, come statue. Parevano uguali al cavallo del re, di bronzo, che avevano messo lassù in cima al monumento. “Si chiama Vittoriano, per via del Re Vittorio.” Il Re. Grande. Gigantesco. Con il cappello e le medaglie sul petto. Lo avevano messo lì, il monumento, quando Ago era troppo piccolo per ricordare. “So’ passati con certe processioni de cavalli, Ago mio!”, gli aveva raccontato Caterina, sua madre.” Pareva che non finivano più”. “E poi?” “E poi so’ finiti i cavalli e finalmente s’è visto il carro che portava la statua del Re, tutto impettito e con le medaglie.” “E poi?” “E poi niente. L’hanno messo sul cavallo e bonanotte.” E adesso ci mettevano pure un soldato morto. “Agostì, sali o no?” Era la voce di sua madre, che chiamava dalla finestra ma con un tono così basso che sembrava di chiesa. “Viè su, che tra un po’ arriva Sciaboletta!”. Caterina gli faceva cenno con la mano. “Nun me fa strillà, che pare brutto!” Ago si rese conto, solo allora, che la piazza, grande, immensa, piena di gente, manteneva un silenzio strano, un brusio di formiche. Non c’erano trombe né fanfare. I soldati camminavano ma non battevano il passo. La gente stava zitta e si sistemava ai lati dei plotoni. Solo il verso di un gabbiano, ogni tanto. E un lontano rimbombare di zoccoli. Salì in casa. “Ma che davero davero passa Sciaboletta?” La madre annuì. “Se t’affacci, tra un po’ lo vedi.” Lui corse sul balconcino che dava dritto dritto sul fontanone, quella statua grande e bianca, messa sotto al monumento. Mare Adriatico, si chiamava. Era il mare ma pure un omaccione pieno di muscoli - di marmo, certo - tutto ignudo e con la mano sulla testa di un leone con le ali. “E manco c’ha le mutande!”, diceva sempre sua sorella Rosetta. E faceva finta che si vergognava e invece rideva. “C’ha un panno, che fa più fino”, com- mentava Oreste il vinaio. Quella statua, a lui, andava a genio. Ci passava davanti tutti i giorni, col carretto carico di botticelle, e lo salutava come a un amico. “Ciao quell’omo!”, diceva a voce alta e si portava la mano alla fronte, proprio come la statua che aveva la mano sulla fronte pure lei, come se dovesse vedere lontano, chissà dove. Ago si sistemò sul balconcino. Dalla finestra accanto s’affacciò Carletto. “Arriva o no?”, chiese il ragazzino. “Pare de sì”. “Lo senti il rumore dei cavalli? Mò arriva” assicurò Caterina. “Scendono giù da Via Nazionale, con la carrozza e tutto. C’è il re e pure la regina. E la regina madre, e il principe e...”. Ago smise di ascoltare il lungo elenco di reali che la madre sciorinava come in una filastrocca. Lui voleva vedere Sciaboletta in persona, il Re Vittorio Emanuele III Savoia. Chissà se ci sarebbe riuscito? Il re, dicevano, era piccolo piccolo che un ragazzino al confronto si sentiva un gigante. “Sì, ma che c’entra la sciaboletta?” aveva chiesto. E il Sor Checchino, che era vecchio come le pietre del Foro e in vita sua ne aveva viste tante, gli aveva spiegato che, per via che era basso, il re non poteva portare la sciabola che portavano tutti i comandanti, se no avrebbe strusciato per terra e lui avrebbe fatto ridere tutti. “E allora?”. “Mbè, i fabbri gli hanno fatto una sciabola su misura, più corta. ‘Na sciaboletta, hai capito?”. Il rumore degli zoccoli dei cavalli si fece più forte. Ago si sporse dalla balaustra. Vedeva tutta la piazza. Rosetta gli si mise al fianco. “Che mò viene il re?” chiese. “A momenti” la rassicurò lui. “Eccolo, eccolo!” strillò la Sora Menica, la fioraia, che s’era piazzata all’inizio di Corso Umberto e teneva d’occhio la strada. “Vedo i cavalli coi pennacchi!” “Uh mamma mia, ci stanno proprio tutti”. Sua madre era emozionata. “Vedi Agostì? Guarda Rosé! Quella è la regina madre, insieme al Re. E poi guarda là. Quella è la regina”. “E come si chiama?” chiese Rosetta. “Elena, si chiama. E’ un bel nome eh! Da regina proprio.” “E chi so’ quelle là?”Ago indicò delle signore, in un’altra carrozza. “Le principesse. Le figlie del re.” “E il principe non c’è?” “E come no, core mio! Voi che nun ce sta er principe? Eccolo là. Umberto se chiama.” Rosetta batté le mani. “So’ tutte anime nere” commentò Ago. Regine e principesse erano vestite a lutto, nera la veletta, nero il cappello, nero l’abito. Passava il tempo e non succedeva più niente. Nel silenzio pesante della piazza, rotto solo dallo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli, tutto quel nero che nascondeva i volti e i corpi sembrò ad Ago insopportabile. “Io scendo” annunciò. “A fà che?” domandò la madre. “A vedè che succede giù.” Un minuto e fu in strada. Un muro di persone gli copriva la visuale. Si sporse oltre le spalle di un battaglione di marinai, con le bandiere. “A regazzì, qua nun ce poi stà” gli fece un tizio in bicicletta. “ E chi saresti, tu?” gli rispose Ago, spavaldo. “T’ho detto che te devi levà da qua“. Abito scuro, bombetta, aveva sul petto il distintivo della polizia. “E nun fa er galletto. Co’ me devi abbassà le penne, hai capito?” Ago aveva capito. Arretrò e s’arrampicò su un leccio dei giardinetti. “E mò che succede?” domandò a un ragazzo che impugnava una macchina fotografica a soffietto e che s’era appollaiato là in cima per godersi meglio lo spettacolo. Gli parlò sottovoce perché il silenzio continuava. La fanfara non aveva suonato neppure per l’arrivo della famiglia reale. “E’ arrivato l’Ignoto”, borbottò quello. Un carro imponente si faceva strada verso il monumento. In alto, su una specie di terrazza, s’era sistemato il re con tutta la famiglia sua. Aspettavano l’Ignoto. “Chi?” “Il milite ignoto”, specificò il ragazzo. “Ah”, fece Ago che, però continuava a non capire il perché di tanta pompa magna. “Ma’sto milite che dici tu, ne conosceva de gente!”, commentò. Dall’albero, poteva vedere la piazza da un’altra prospettiva: stendardi, soldati, carrozze un brulicare di gente che manco quando moriva il papa se ne vedeva tanta! Il ragazzo scoppiò a ridere. “Tutta questa gente non sa nemmeno che faccia avesse.” Ago si grattò la testa. Cioè? “Cioè, è un soldato morto in guerra”. E questo lo sapeva. “Di lui non si sa nemmeno il nome. E’ ignoto, appunto.” E non aggiunse altro. Ago continuava a non capire: tutta quella gente, dal Re in giù, faceva il funerale a un tizio mai visto e che stava così messo male che neppure il nome gli era rimasto! Scivolò giù dall’albero e si infilò, lesto, tra la folla che sostava a lato dell’Altare della Patria. “Adesso lo portano verso l’altare!”, borbottò una donna. Ago voleva vedere da vicino. S’arrampicò sul Mare Adriatico. Leggero e agile, fece leva sulle braccia della statua e si ritrovò sulle sue spalle. Il leone alato era più in basso e non faceva paura. Ago vide una cassa da morto, come ne aveva viste tante nella bottega del Sor Mario, il falegname. La portavano a spalla i soldati. E faticavano. C’era così tanto silenzio che si sentiva il loro fiato corto mentre salivano le scale. “Povero figlio”, sussurrò a mezza bocca una donna, giù in basso. “E’ figlio suo?”, domandò Ago, avvicinandosi. “Mio... Come se fosse”, rispose lei. Come se fosse... Ago tornò a guardare. Ora la bara era stata messa a terra. “Poverofigliopoverofigliopoverofigliopoverofiglio”, ripeteva la donna, come una litania. “E’ morto sparato?”, domandò Ago. “Chi?” “Suo figlio”. Indicò la bara. “Non si sa. Del figlio mio non si sa niente.” “Eh, lo so, neppure il nome!” “Come no! Il nome, sì”, fece lei “Cesare faceva di nome. Era bello come un re!”. Ecco come si chiamava l’Ignoto! Il ragazzo sull’albero non sapeva niente! Ago evitò di commentare. Sciaboletta, lassù, non era bello per niente. La donna, intanto, aveva tirato fuori dalla borsa una fotografia tutta stropicciata. “Eccolo qua, Cesare mio. Stava così bene in divisa!” In effetti, Ago dovette ammettere che il tipo nella foto faceva la sua bella figura. Non fece in tempo a dirlo perché, di botto, si misero a suonare tutte le campane e i soldati, laggiù, nella piazza, presero i fucili e si misero a sparare per aria. A salve, per fortuna. La gente, da composta che era, si mosse come il mare quando c’è maestrale. Si mossero anche i soldati e si misero in marcia. Le carrozze dei reali s’avvicinarono alla scalinata. Per effetto di tutto quel movimento, Ago perse di vista la donna. Restò appollaiato sul Mare Adriatico per un bel po’ ancora. Vide Re, regine, principi e principesse allontanarsi. Quando l’ultimo vessillo e l’ultima bandiera ebbero lasciato la piazza, scese dalle spalle della statua. C’era tanto di quel popolo che faticò a farsi strada per raggiungere la tomba del Milite Ignoto. Accanto a lui, un uomo anziano mormorava una preghiera.“Prega per il soldato?”, domandò Ago. L’uomo fece un cenno d’assenso. “E’ Milite Ignoto e si chiama Cesare. Bello come...”. Si fermò. Gli venne alla mente Sciaboletta. “Bello”, tagliò corto “In divisa era proprio bello!”. Un frettoloso segno di croce e Ago si voltò. Corse verso casa. Le aiuole e lo spiazzo non erano più occupate da soldati e folla. C’era ancora il tempo di una partitella.